Di Silvio Mitis
Viaggio alla fine delle Cicladi per trovare una delle isole più autentiche dell’Egeo che emerge da abissi profondissimi e abbaglia con la luce della sua Chora
La macchia bianca della Chora di Amorgos
Bisogna prendere un lento traghetto dal Pireo e compiere la rotta verso le Cicladi orientali per fare tappa ad Amorgos: si arriva così alla meta più lontana, selvaggia e incontaminata, all’isola dove si va a cercare la dimensione assoluta di due colori, il bianco e il blu. L’incontro col bianco comincia nella fantastica chora di Amorgos, il villaggio più interno e più alto dell’isola, quello che gli antichi greci usavano come struttura difensiva perché sorvegliava tutte le coste dallo sbarco dei nemici. Ad Amorgos è rimasta forse la chora più bella e più autentica di tutto l’Egeo, una macchia bianca che domina da una collina il paesaggio circostante: bianche e accecanti le case, bianchi i muri dei vicoli e gli scalini coi bordi di calce, così come i panni e le lenzuola stese al sole; bianchi i resti dei mulini, bianche le facciate delle chiese bizantine, così bianche perché si racconta da queste parti che ogni famiglia ne ha una e la cura e la dipinge per sempre, una generazione dopo l’altra.
Il ricordo di una musica
E poi mi ricordo di una musica, di un violino e di un pianoforte mixati a creare melodie insieme evocative e moderne, una musica struggente che veniva dalla piazza centrale della chora e sfruttando l’eco delle mura, il dedalo delle stradine e il soffio del vento si infilava sotto l’ombra dei pochi alberi, tra i tavoli delle taverne, ad accompagnare le corse dei bambini, le partite a carte dei vecchi, la crescita degli ortaggi negli orti. Una colonna sonora che poteva nascere solo in quel luogo, un sirtaki più dolce, che entrava nella pelle piano piano, letteralmente. Che rendeva le ore calde delle liete e lunghe pause, che ispirava vita riparata e sacralità. Che ti faceva compagnia davanti a uno yogurt, a una feta, a una melanzana, a un polpo, a un bicchiere di ouzo o retsina. Che continuava anche quando gli abitanti della chora riposavano sotto le pergole accanto ai gatti o dentro le stanze bianche adornate di bouganvilles e gerani. Che sembrava muovere le pale rotte dei mulini abbandonati sopra il villaggio, disposti in carismatica fila indiana. Che arrivava nel cuore del Kastro veneziano, lo sguardo più alto sul paese bianco come il latte.
Il bianco spirituale del monastero
Ancora più evidente e assoluto è il bianco del monastero di Chozoviotissa, aggrappato a una roccia scoscesa come quella delle Meteore, in un paesaggio di impressionante bellezza. Al cuore spirituale delle Cicladi si arriva a piedi o col mulo, gli ultimi dei 300 gradini sembrano finire in cielo in una sorta di cammino di ascesi o di perdono e lassù si conquista una sensazione unica di pace, di silenzio, ci si sente vicini a dio o a cosa altro si voglia credere. Quel monastero ti resta dentro, per anni e anni ripensi alla sua bianca forma che rende plastici concetti astratti come la purezza, la preghiera, la semplicità. Capisci in un attimo che puoi vivere solo con le cose essenziali. Ripensi al fatto che non era il classico monastero da cartolina, con la cupoletta azzurra, la croce che si staglia sul tramonto, la forma tonda, l’accesso facile, ma un luogo “altro”, veramente. Incontri sempre un Pope ortodosso (se ne alternano una dozzina), un solitario guardiano tra la montagna e il profondo blu del mare, che restaura le icone, accende l’incenso, intona i salmi, accoglie i viaggiatori, ti offre un raki (liquore di cannella, miele e erbe) e un dolcetto, suona le campane oppure se ne sta in disparte nella sua cella o su uno scoglio a meditare. Fermarsi qua poche ore è già un’esperienza, una volta tanto non serve rincorrere il tempo ma respirare con lentezza, inondarsi di luce, da qualche finestra che si spalanca sul mare increspato dal meltemi. A Chozoviotissa non arriva un rumore, si avvicina solo qualche uccello, lontane restano le barche e la mistica costruzione bianca, dedicata alla Vergine protettrice dei pescatori, sfida dal XII secolo ogni vento, ogni stagione, ogni solleone, ogni burrasca. L’escursione è meglio farla nelle prime o ultime ore del giorno, vestiti con decenza, per rispetto a quello che è un capolavoro della fede, della natura e delle mani.
Agia Anna, un puntino bianco nel grande blu
E dopo aver visto il luogo più sacro di Amorgos poco più in basso ci si innamora della minuscola cappella bianca di Agia Anna che sembra la sua sorella più piccola, più graziosa, meno severa. Se devo immaginare un posto, un’isola, dove capire il senso delle cose, del mare, della religione e di quello che viene dopo credo che i passi tra Chozoviotissa e Agia Anna siano il terreno di prova ideale per tutto questo perché davvero il paesaggio è nudo e richiama l’infinito. Causa sommovimenti dell’anima. Ti fa venire la voglia di abbandonare tutto. Ti rende simile a un Pope, con la sua stessa pazienza, il suo sguardo antico. La chiesetta è in faccia al mare, sembra incastonata nel mare: una baia trasparente come poche altre al mondo, un invito al tuffo nelle immensità del blu.
(continua…)