Testo di Anna Maria Arnesano e foto di Giulio Badini e Archivio
Soltanto sulle guide più recenti sull’India si possono trovare notizie sull’Uttarakhand. Infatti fino al 2000 questo territorio himalayano, grande un sesto dell’Italia, costituiva la porzione settentrionale del vasto stato dell’Uttar Pradesh, e fino al 2006 era chiamato Uttaranchal. Situato ad appena 200 km a nord-est di Delhi, questo nuovo stato risulta formato da una serie infinita di colline ammantate di boschi che si ergono sopra la fertile pianura subhimalayana, per concludersi a 6-7.000 m di altezza con le cime himalayane al confine con Nepal, Tibet e Himachal Pradesh; la massima altitudine si tocca nel Nanda Devi a 7.816 m, la maggiore dell’India.
Nella regione occidentale del Garwhal dalle alte vette ammantate di nevi perenni e ghiacciai nascono i fiumi sacri indiani, il Gange (la Madre Ganga dell’India) e i suoi affluenti Yamuna, Mandakini e Alaknanda, mentre le sue profonde vallate hanno ospitato da sempre un microcosmo di civiltà diverse per lingua e cultura, dove il prevalente induismo affianca residui permanenti di animiamo, di buddismo e di sikhismo. Questa regione dal clima mite costituisce il cuore dell’induismo, nella storia e nella mitologia, la patria della meditazione e dello yoga, concentrando in breve spazio i luoghi sacri dell’ascetismo indù. Ogni anno, durante la stagione degli yatra (pellegrinaggi) che dura da aprile a novembre, milioni di devoti provenienti da ogni parte del paese percorrono i sentieri del Char Dham, il sacro pellegrinaggio, che tocca i quattro antichi templi ubicati presso le sorgenti dei sacri fiumi, per immergersi nelle loro gelidi acque purificatrici. In questa babele in cammino di lingue e di colori di ogni età e censo accumunata dal fervore mistico, spiccano le figure ieratiche dei sadhu e dei sannyasi, i monaci itineranti, santoni e asceti appartenenti a varie sette spesso nudi o quasi, con il corpo cosparso di cenere bianca, i capelli e la barba raccolti a treccia e il terzo occhio dipinto sulla fronte, a volte immobili nella meditazione per durate incredibili (e i fachiri anche in situazioni impossibili, capaci come sono di annullare il dolore, di levitare e di sospendere le funzioni corporee, fino a fermare il cuore), che per fornire una testimonianza mistica hanno scelto povertà, castità e distacco da ogni bene materiale.
A parte gli appassionati di trekking, che qui trovano un terreno ideale, la maggiore attrazione della regione del Garwhal è costituita proprio dall’incontro con la moltitudine di pellegrini sui sentieri e le ripide strade da batticuore del Char Dham che portano alle sacre sorgenti ed ai templi sospesi su vertiginosi dirupi, in un contesto naturale esuberante. Gangotri, le sorgenti del Gange, tra enormi massi levigati e con alcuni sadhu che vivono entro caverne in totale isolamento, Yamunotri, sorgenti calde dello Yamuna tra foreste di abeti, rododendri e cedri deodora, Badrinath con il tempio sacro di Vishnu, numerosi ashram (eremi di meditazione) e dharamsala (foresterie per i pellegrini), e infine Kedarnath, con un grande tempio di Shiva e una riserva naturale di cervi.
E poi Haridwar, dove il Gange esce da una gola per affrontare la pianura, una delle sette città sante dell’induismo e importante centro della medicina ayurvedica, con i fedeli al tramonto che compiono i bagni purificatori abbandonando sulle acque fiammelle galleggianti. Cenno a parte merita la remota Valle dei Fiori, parco nazionale e sito Unesco, resa celebre da un alpinista inglese soltanto nel 1931. Si tratta di prati a 3-4.000 m di quota dove in primavera-estate fioriscono specie endemiche di fiori selvatici e medicinali come acero indiano, papavero blu, iris nano, anemoni, primule, gerani e orchidee, un vero giardino degli dei tra foreste e nevai che offre riparo anche ad animali rari come cervi del muschio, pecore blu, orso himalayano e leopardo delle nevi.
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