Testo di Mariella Morosi e Foto di Maurizio Drago
Città dauna di antichissima origine, San Severo di Puglia (Foggia) è nel nord del Tavoliere, l’immensa pianura coltivata a grano che in questa stagione diventa tutta d’oro per le spighe mature pronte per la mietitura. La sua storia non viene assorbita dalla ruralità che la indica come “centro agricolo”, ma si rivela attraverso i suoi siti archeologici, i capolavori barocchi degli edifici di culto e dei palazzi nobiliari, l’intensa vita culturale che ruota intorno al MAT, il Museo dell’Alto Tavoliere e le proposte del cartellone del “Verdi”, il Teatro Comunale. Il territorio, ricco di chiese, monasteri, castelli e masserie, ha anche una grande valenza naturalistica con sconfinate pianure quasi lunari, laghi, spiagge fluviali, arenili, sentieri della transumanza, boschi e un prezioso patrimonio di biodiversità. Ma c’è un evento particolare che ha fatto conoscere nel mondo questa cittadina pugliese fondata dal re greco Diomede: la Festa di maggio dedicata alla Santissima Vergine del Soccorso. Per tre giorni, più volte al giorno, la bella Madonna nera, dal volto intagliato nell’ebano, patrona della città e della Diocesi viene portata a spalla dai fedeli delle confraternite in processione con una ritualità unica e sorprendente che si conclude col fuoco purificatore. Per raccontare San Severo, quindi, non si può non partire da questa manifestazione devozionale che conserva una forte connotazione pagana. Il centro storico è addobbato a festa e le tovaglie più preziose sventolano da balconi al passaggio del corteo della Vergine e di tutti i Santi tra le “rotelle”, isolati giochi di luce e rumore. A seguire arriva lo scoppio assordante di petardi nelle cosiddette “batterie” pirotecniche, simili alle spagnole mascletas, che bruciano nei venti rioni.
Talvolta qualcuno dei “fujenti” (fuggitivi), i giovani che corrono sotto la serie delle esplosioni dei petardi, riporta ustioni o rimane ferito nella calca, ma anche questo viene accettato, nonostante le imponenti misure di sicurezza in teoria lo vietino. Del resto il rischio di qualche bruciatura, poi esibita con orgoglio, non ferma la partecipazione corale. Come è noto specialmente nel Sud dai mille Santi e dai mille campanili, ancora sopravvivono forme di penitenza o di piccoli gesti autolesivi. Insopportabile il rumore dello scoppio progressivo dei petardi che conservano la funzione di sollecitare la presenza dei fedeli e solennizzare in massa le ricorrenze religiose, come già nel ‘600 incoraggiavano a fare il clero e le autorità religiose. E, a seguire, arrivano le “batterie”. Le esplosioni arrivano in sequenza, con intensità sempre maggiore. Sono provocate da una lunga miccia che, bruciando, fa esplodere boati in ritmica successione fino all’ultima sezione del fuoco, il “finale” (o “scappata”), velocissima e fortemente ritmata. Un’ultima assordante detonazione conclude il tutto in un’esplosione di gioia collettiva. Ciò che resta è una scena di guerra, con fumo e tizzoni ardenti. Ma poco dopo si ricomincia, in un’altra strada, in un altro rione, e così per i tre giorni, fino a sera, quando la Madonna e i Santi vengono ricollocati nelle rispettive chiese. Il posto d’onore accanto alla Vergine dal volto nero per i Santi Severino Abate e Severo Vescovo anch’essi patroni. Protettrice dei campi, la veneratissima statua lignea a grandezza naturale tiene nella mano destra alcune spighe di grano, un ramo dì olivo e un grappolo d’uva: proprio i tre prodotti base dell’alimentazione dei popoli mediterranei, e tutti dalla forte valenza rituale e simbolica. Era invocata in caso di siccità e di raccolti scarsi e portata sempre in processione, vestita con sontuose vesti di broccato intessuto di fili d’oro e adornata da gioielli donati dai fedeli per grazia ricevuta.
Se questo è l’evento-bandiera di San Severo, il suo centro storico merita una visita accurata, tra chiese e palazzi nobiliari con gli stemmi sulle facciate e sui portali. Il suo barocco, morbido e sinuoso, è diverso da quello leccese e ricorda piuttosto il napoletano. Tra gli edifici di culto da visistare, il Santuario della Beata Vergine del Soccorso, la Cattedrale di Santa Maria assunta della fine del ‘500, le chiese di San Lorenzo, di Santa Maria della Pietà, quella della Santissima Trinità dalle piastrelle policrome, la romanica San Severino con il rosone a sei raggi e la meridiana sulla facciata laterale. Anche il MAT ha una sede storica: il settecentesco Palazzo dei Padri Conventuali, fino a qualche decennio fa ricovero per orfanelle. Qui si trovano il Museo Archeologico con reperti dalla preistoria al Medioevo, la Pinacoteca e la BIblioteca. C’è anche la sezione, “Splash” dedicata al fumettista Andrea Pazienza, sanseverinese, con una ricca raccolta delle sue opere. L’attivissima direttrice Elena Antonacci ne ha fatto un polo culturale dando spazio soprattutto ai giovani. Ma ospita anche eventi, concerti e mostre fotografiche. A dimostrare l’anima agricola della città sono visibili ancora nelle piazze le botole delle immense fosse in cui veniva conservato il grano, oggi come allora al centro dell’economia locale. Da San Severo possono partire itinerari di grande interesse, storici e naturalistici ma un’occasione da non perdere è ripercorre i sentieri della transumanza, “le vie d’erba” dove sono passati per secoli i pastori abruzzesi con loro greggi. Scendevano dai monti ai primi freddi per cercare nuovi pascoli e a primavera riprendevano la strada del ritorno.
Dovevano pagare per ogni pecora in transito un contributo daziario, spesso in natura, con forme di formaggio e agnelli. Una di queste vie, o tratturi, passa ancora per San Paolo di Civitate, che è anche sede del Museo Civico Archeologico recentemente riallestito con reperti provenienti dall’area dell’antica città daunio-romana Tiati-Teanum Apulum. Tutta la Valle del Fortore, il fiume che segna il confine tra Molise e Puglia, è da percorrere. Si incontrano aree boscose e storiche masserie, di cui alcune risalenti al ‘500 e con elementi di fortificazioni come torri angolari, per difendersi dal brigantaggio. Meritano una sosta il Boschetto Launia, poi Serracapriola con il suo borgo medievale, il Bosco di San Leucio, Poggio Imperiale, Castelnuovo della Daunia con il suo impianto termale. Chieuti con la sua bella marina e i boschi della Balalara, è un centro di cultura albanese. Tra il 1461 e il 1470 infatti ospitò una numerosa comunità di arbëreshë, ed è ancora oggi caratterizzato dal bilinguismo. Gli albanesi vi introdussero il culto di San Giorgio in onore del loro principe-eroe, Giorgio Castriota Skanderberg. Tutto l’anno si svolgono nel territorio sagre e feste legate alle stagioni agricole e ai suoi prodotti. Dell’olivo si coltiva una specie autoctona detta “peranzana”, che dà un olio dl sapore intenso e dalle benefiche qualità. La Daunia è famosa anche per il vino, e le cantine sono aperte ai visitatori.
La seicentesca D’Araprì è premiata nelle grandi competizioni enologiche per la spumantizzazione con metodo classico del bombino, un vitigno autoctono. Famosi per la loro qualità e altrettanto celebrati i vini dell’azienda D’Alfonso del Sordo, viticoltori dal 1860. Gli attuali titolari, Gianfelice e Celeste D’Alfonso continuano a svolgere un ruolo importante nella tradizione enologica regionale e il loro motto è “La tipicità è il legame indissolubile di un vino con la sua terra”. Tutta l’offerta gastronomica è legata ai prodotti del territorio e conserva le caratteristica di cucina povera. Pani e paste, fantasiose declinazioni del grano, sono squisiti, così come i legumi e le verdure degli orti. Dovunque si possono gustare i cicatelli, pasta di semola fatta a mano e condita in vario modo, che qui sono più popolari delle mitiche orecchiette. L’economia agricola si vede anche nei secondi piatti, primo tra tutti i Torcinellli, le budelline di agnello intrecciate e grigliate. Solo le interiora dell’animale erano disponibili perché le parti nobili dell’animale dovevano essere vendute. Per alloggiare non possiamo che consigliare le masserie, attrezzate per un soggiorno confortevole, molte persino con spa e piscina. Da segnalare a Chieuti l’ottocentesca masseria Casacapanna, esempio di splendida gestione e di cucina a base di prodotti esclusivamente aziendali, a molto meno del troppo citato km zero. Il frutteto è a disposizione degli ospiti e Giorgio Saracino che la gestisce con la mamma è sempre disponibile per raccontare agli ospiti la storia e la composizione di ogni piatto servito e di consigliarli sugli itinerari da non trascurare nella scoperta del territorio.
ALLA SCOPERTA DELL’ALTO TAVOLIERE TRA IL CULTO DELLA MADONNA NERA, IL BAROCCO E I CAMPI DI GRANO
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