Testo di Anna Maria Arnesano e foto di Giulio Badini e Archivio
La Mongolia non è una destinazione per turisti, ma soltanto per grandi viaggiatori. I primi rischierebbero di trovarla alquanto monotona e priva di interessi; soltanto i secondi sono in grado di apprezzarne le indubbie peculiarità. Non si tratta comunque di una meta facile: questo paese, grande cinque volte l’Italia ma con una densità di un abitante per kmq, presenta infatti un ambiente aspro formato essenzialmente da steppe infinite, qualche foresta e una porzione di deserto del Gobi, un altipiano ondulato ad un’altitudine media di 1.500 m (ma con cime che arrivano a 4.356 m) con ampie zone perennemente ghiacciate, forti escursioni termiche diurne e stagionali, scarse precipitazioni, forti venti e una rete stradale quasi inesistente, dove il principale mezzo di locomozione per questo fiero popolo di pastori seminomadi disseminati tra steppe e deserti è ancora rappresentato dal cavallo e dal cammello, solo di recente affiancati dalle moto.
Un paesaggio infinito, dolce e vivace, tra il verde tenero delle praterie punteggiate da mandrie di cavalli selvaggi, cammelli a due gobbe e yak e le bianche gher, le case dei nomadi, e il giallo ocra delle dune che cela uno dei maggiori cimiteri di dinosauri della terra. Eppure un simile contesto ambientale nel 1200 diede vita ad uno dei maggiori imperi dell’Eurasia. Il merito fu tutto di Gengis Khan, il mongolo più famoso e uno dei più geniali condottieri e politici di tutta la storia, che fu capace di trasformare dei pastori individualisti in una invincibile armata, in grado di conquistare in pochi decenni un territorio che si estendeva dalla Cina settentrionale al mar Nero, dalla Corea alla Polonia, dall’Indocina fino alla Persia e alla Crimea. E per un secolo la Mongolia costituì l’epicentro di razze, culture e religioni diverse, meta e luogo di transito per commerci e conoscenze.
Così rapidamente come era sorto, altrettanto rapidamente l’impero si dissolse e nel 1350 la Mongolia divenne una provincia cinese, per rimanere tale fino al 1921 quando entrò nella soffocante orbita sovietica, dalla quale si è scrollata soltanto nel 1990. Al viaggiatore colto e curioso si aprono oggi le porte di un paese fuori dal tempo, dove ammirare le vestigia del passato, dove solcare le immensità di una steppa verdissima o le dune infuocate del deserto, entrando in contatto con i suoi abitanti e scoprire i loro peculiari stili di vita come la musica, il canto, la medicina tradizionale e lo sciamanesimo, nonché il profondo senso religioso nei confronti del rinato buddismo lamaista.
Un itinerario di 15 giorni in Mongolia in fuoristrada, con tre soli passeggeri per vettura. Dalla capitale Ulaan Batar, dove meritano una visita la città sacra con il monastero lamaista di Gandan, la cittadella cinese di epoca manciù e il museo con i suoi giganteschi scheletri di dinosauri, il percorso punta a sud verso le estese praterie del Gobi centrale, punteggiato da insediamenti di nomadi che abitano nelle caratteristiche gher allevano cavalli, visitando le rovine del primo teatro mongolo costruito nella steppa e un antico monastero.
Dopo Bayan Zag, dove si trova il maggior giacimento al mondo di scheletri e di uova di dinosauri, si arriva alla valle di Yol, un profondo canyon vulcanico dove ammirare aquile, capre selvatiche, marmotte e yak, e allo spettacolare mare di sabbia del Gobi meridionale, con dune alte fino a 300 m, percorso da carovane di nomadi con i loro cammelli a due gobbe. Puntando a nord tra verdi praterie, alte montagne e insediamenti di nomadi si arriva al lago Orog, abitato da molti uccelli. Superate le rovine di Karakorum, antica capitale dell’impero mongolo, e dell’enorme monastero fortificato buddista di Erdene Zuu, gioiello dell’arte e dell’architettura cinquecentesca mongola, si visita la riserva naturale di Hustain Nuruu, dove vivono ancora selvaggi i cavalli preistorici predecessori di tutte le razze attuali, e quindi si fa rientro nella capitale.
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