Uno slogan del locale ente del turismo recita “Il Madagascar è in Africa, ma non è Africa”. Nulla di più vero. Nonostante le due terre risultino separate da un tratto di mare di appena 400 km, si tratta di mondi completamente diversi. Nell’isola manca del tutto la fauna di grossa taglia, i feroci carnivori e i velenosi rettili africani, sostituiti da animali di altro tipo che si trovano soltanto qui, la vegetazione solo in parte è comune e pure gli abitanti sono totalmente dissimili, anzi formano un mèlange talmente speciale da non trovare uguali da nessuna altra parte della terra. E una ragione di questa sostanziale differenza c’è. Un tempo assai lontano, quando la geografia del pianeta era molto diversa da oggi, entrambe facevano parte del supercontinente australe del Gondwana. Poi, circa 160 milioni di anni fa, una frattura geologica staccò il Madagascar dall’Africa, che dall’epoca dei dinosauri iniziò a navigare come una zattera nell’oceano Indiano con il suo prezioso carico di natura, fino fermarsi 60 milioni di anni or sono nell’attuale posizione, di fronte alle coste del Mozambico. Questo prolungato isolamento, senza alcuna interferenza esterna, ha consentito all’evoluzione biologica di estrinsecarsi come in nessun altro luogo, producendo una biodiversità unica in un’eccezionale alternanza di ecosistemi. Nella quarta isola per dimensioni del mondo, l’80 % delle specie animali e vegetali sono infatti endemiche, a cominciare dai lemuri, le simpatiche e curiose proscimmie che da sole meriterebbero un viaggio, presenti con una cinquantina di specie assai diverse tra di loro, che spaziano da 30 grammi ai 7 kg. Tra 12 mila piante ci sono 170 tipi di palme e 7 di baobab (in Africa rispettivamente 50 e una), mille di orchidee, 60 di agavi, euforbie e aloe, essenze medicinali e piante carnivore, e poi metà di tutti i camaleonti del mondo, migliaia di farfalle, 250 di rettili, 60 di serpenti (tutti non velenosi), 140 di rane, 250 di uccelli, e l’elenco potrebbe continuare.
Un vero giardino dell’Eden, dove c’è sicuramente ancora parecchio da scoprire, cresciuto e sviluppatosi privo dell’unica specie davvero nefasta per tutti, l’uomo, comparso soltanto negli ultimi 1.500 anni, ma sufficienti per creare non pochi danni. Le foreste, che un tempo ricoprivano tutti gli habitat con essenze pregiate come ebano, mogano e palissandro, si sono ridotte dell’ 80 %, i lemuri hanno perduto una ventina di specie, tra cui uno gigante grande quanto un gorilla, e si sono estinti un ippopotamo pigmeo, una tartaruga enorme, un fossa dalle dimensioni di un leone e l’Aepiornis, l’uccello più grande del mondo, alto 3 m e con uova grandi 160 volte quello delle galline. Pensate che frittate! Così come la flora e la fauna, anche l’uomo malgascio può essere considerato a suo modo endemico, non trovando alcun riscontro altrove. Per secoli gli antropologi hanno cercato di individuarne caratteristiche peculiari e provenienza, lavoro vanificato da un’estrema varietà somatica. Le guide parlano di 18 differenti etnie, ubicate in diverse regioni, ma in realtà risulta assai difficile trovare dei denominatori comuni fisici anche all’interno di una stessa etnia, per l’enorme mescolanza avvenuta in un brevissimo lasso di tempo. Alla fine la soluzione, davvero inimmaginabile, è venuta analizzando la lingua comune, formata da parole romantiche e lunghissime: si tratta nientemeno che di un dialetto indonesiano-polinesiano parlato nel Borneo meridionale, con successive contaminazioni. I malgasci sono quindi venuti in ondate migratorie successive dall’Indonesia e dalla Malesia, sospinti dai venti a bordo delle loro fragili piroghe a bilanciere, le stesse che usano ancora oggi, a colonizzare una terra vergine distante settemila km, portandovi metalli, baco da seta, cane, maiale, polli, riso, banane, cocco e agrumi. Altre migrazioni si registrarono nei secoli successivi da parte di commercianti arabi e indiani, da schiavi africani, da colonialisti europei, da missionari, esploratori e da avventurieri di tutte le risme, compresa una utopistica repubblica di pirati, Libertalia, a fine 1600, per diventare poi colonia francese a fine 1800.
Il risultato è il malgascio odierno, effetto di tutte le mescolanze possibili, ma con alcune caratteristiche comportamentali comuni: oltre alla lingua l’abbigliamento, un unico colorato pareo per uomini e donne, il carattere, sempre calmo e serafico, e la cultura che si basa sui tabù, il culto degli antenati, i sacrifici rituali, l’astrologia e la superstizione. Le statistiche dividono a metà la popolazione tra cattolici e animisti, ma in realtà tutti seguono in primis la tradizionale cultura animista malgascia, vero collante nazionale. Un itinerario nel centro-sud parte da Antananarivo, sugli altopiani centrali, sede del più consistente mercato artigianale e di spezie dell’Africa australe, ma anche la capitale meno africana del continente, e tocca in successione Antsirabe, cittadina termale dall’architettura coloniale francese famosa per la lavorazione di minerali e pietre preziose, Ambositra, cuore dell’artigianato malgascio in legno, i piccoli villaggi agricoli dell’etnia merina circondati da risaie a terrazzamenti che ricordano l’oriente da dove proviene questa gente, prima di arrivare all’incontro con i lemuri dal viso furbetto nel parco di Ranomafama, foresta pluviale ricca di orchidee e altri tipici animali come gechi, rane e camaleonti. Si prosegue quindi per Fanarantsoa, seconda città dell’isola, Ambalavavao, centro di produzione di una romantica carta papiro con fiori secchi incorporati, fino alla riserva di Annja, luogo con tre giganteschi monoliti e un’elevata biodiversità vegetale e animale, tra cui varie specie di camaleonti. Le grandi savane aride del sud, con le foreste spinose e le piante grasse, abitate da pastori con le loro mandrie di zebù, circondano il parco dell’Isalo, un incredibile mondo minerale formato da canyon, cascate e rocce erose in maniera esasperata. Grandi alberi di baobab e imponenti quanto curiose tombe conducono all’Arboretum Antsokay, un giardino botanico con 900 specie di piante, di cui 90 % endemiche e 80 % medicinali, e poi a Tulear, la sonnacchiosa capitale marina del sud sulla costa occidentale, protetta dalla barriera corallina (seconda per lunghezza solo a quella australiana) e solcata dalle colorate barche a bilanciere dei pescatori Vezo, i nomadi del mare.
In volo si rientra a Tana, per andare a visitare, sulla costa centro-orientale la riserva d’Andasibe, densa foresta primaria pluviale che ospita, tra ninfee e orchidee, camaleonti giganti, vari tipi di lemuri, coccodrilli e altri animali. L’operatore urbinate “Apatam Viaggi” (tel. 0722 39 94 88, www.apatam.it), dal 1980 specializzato in percorsi culturali con accompagnamento qualificato in tutti i continenti, propone in Madagascar un itinerario di 15 giorni dedicato alle principali valenze ambientali, naturalistiche e etnografiche del centro-sud dell’isola. Unica partenza di gruppo con voli di linea da Milano e Roma il 7 agosto e 16 ottobre 2016, pernottamenti in hotel e lodge a 3 e 4 stelle con pensione completa, accompagnatore dall’Italia.