Il Myanmar, ex Birmania, vive un rapporto ambiguo con il turismo. Questa nazione che occupa l’occidente della penisola indocinese governata da oltre mezzo secolo da una giunta militare stupida e feroce, attira visitatori per la straordinaria ricchezza dei suoi monumenti religiosi e per il carattere calmo e serafico dei suoi abitanti, impregnati di distacco buddhista, i quali hanno un senso del tempo piuttosto diverso dal nostro: mentre noi lo divoriamo, loro lo assaporano. Purtroppo quanti vi si recano si limitano alla zona centrale, quella classica delle antiche capitali lungo il fiume Irrawaddy, ignorando tutto il resto, come le stupende spiagge, le isole e le barriere coralline del sud-est, praticamente vergini, che non hanno proprio nulla da invidiare alla confinante Thailandia. Altra zona negletta quella del sud-ovest, occupata dagli stati del Rakhine (o Arakan) e del Chin, aperti al turismo solo negli ultimi anni e con alcune limitazioni, al confine con Bangladesh e India orientale e affacciati sul golfo del Bengala con spiagge altrettanto intonse e invitanti. L’isolamento di questa regione dovuta alla presenza, sia ad ovest che ad est, di catene montuose alte oltre 3.000 m, ha fatto si che svolgesse un ruolo secondario nella storia della nazione, subendo maggiori influenze provenienti dall’India che non dalla Birmania, con una densità piuttosto bassa. Per entrambi l’unica stagione accessibile risulta l’inverno, da ottobre a febbraio, in quanto poi fa troppo caldo umido, a cui seguono le piogge monsoniche. Come nel resto del paese, la popolazione costituisce un vero caleidoscopio di etnie, con origine, provenienza, storia, lingua, costumi e stili di vita differenti.
Lo stato costiero del Rakhine è abitato dagli Arakan, discendenti da mercanti e marinai indiani qui approdati nell’VIII° sec. fondando i primi regni indu-buddhisti, oggi contadini o pescatori che si dichiarano i più ferventi buddhisti del sud-est asiatico e che vi hanno costruito splendidi templi in stile bengalese. Qui le lancette dell’orologio sembrano essersi fermate, la vita scorre lenta e la calma regna ovunque sovrana. Si tratta di un popolo puritano e moralista, con uno stile di vita semplice e rigoroso, dove parecchi sono vegetariani e pochi bevono alcool, tutti si sposano vergini, illegali prostituzione, omosessualità e droga; in compenso donne anche assai anziane fumano pipa e sigari enormi. Tutti, uomini e donne, indossano il longyi, una specie di gonna lunga che costituisce l’abito nazionale. Sono in perenne conflitto, anche armato, con il governo centrale e con la minoranza bengalese e musulmana, costretta spesso a riparare nel confinante Bangladesh. Da non perdervi le monumentali rovine di Mrauk-U, uno dei siti archeologici più suggestivi della penisola indocinese. Più a nord le donne delle tribù Thet portano infilati nei lobi delle orecchie dei bastoncini d’argento, spessi più di 1 cm, come protezione dai demoni. Nelle fitte foreste settentrionali vivono leopardi, cervi, scimmie, cinghiali e orsi, lungo i fiumi e le coste formazioni di mangrovie popolate da coccodrilli e uccelli acquatici. A nord si estende, ai confini con l’India di nord-est, il montuoso stato di Chin, di difficile accesso per mancanza di strade, di cui si sa poco anche perché interdetto agli stranieri fino a pochi anni fa. Sappiamo che a metà del 1500 fu conquistato dai Birmani e a fino 1800 dai Britannici; l’indipendenza solo nel 1974. E’ abitata dai Chin (detti anche Kuki o Mizo), popolo tibeto-birmano migrati dalla Cina nell’VIII° sec., un tempo animisti e oggi in maggioranza cristiani. Il loro isolamento li ha salvati dalle dominazioni medievali di Bagan e di altri regni birmani; valorosi guerrieri, hanno combattuto con l’esercito coloniale britannico e oggi godono di autonomia dal governo centrale. Vivono di una misera agricoltura, con forte emigrazione. Ancora più a settentrione sorgono alcuni sparuti villaggi isolati di Naga, tribù tibeto-birmane provenienti dal confinante Nagaland indiano. Oggi sono cristiani pieni di tatuaggi e di piercing, ma fino ad un recente passato erano tagliatori di teste.
Un possibile itinerario parte da Sittwe, raggiunta in volo dalla capitale Yangon, una delle rare città del Rachine, capoluogo nel delta del fiume Kaladan e porto peschereccio, dove il tempo sembra essersi fermato al 1946, quando se ne andarono gli inglesi. Da qui con navigazione fluviale si raggiungono, in un suggestivo paesaggio tra risaie e noci di cocco, i resti di Mrauk-U, ultima grande capitale del regno Arakan fondata nel 1430 da un saggio re in una posizione strategicamente ideale, solcata da parecchi canali. La città crebbe prospera e si arricchì di importanti edifici per tre secoli e mezzo, tanto che la sua fama giunse anche in Europa, fino alla conquista di un re moghul indiano prima e di uno birmano poi. E un devastante terremoto nel 1784 fece il resto. Tra i suoi 70 monumenti da non perdere il Tempio delle 80 mila immagini, per il numero sterminato di statue, diversi monasteri e pagode, il palazzo reale. Importanti anche i vicini resti di Vesali, capitale del regno di Arakan tra IV e VIII sec. Bagan, sito Unesco sul fiume Irrawaddy, con i suoi 5.000 edifici religiosi di mattoni rossi risalenti all’ XI-XIII sec. quando erano ben 13.000, costituisce il cuore antico del Myanmar, capitale di un regno enorme e epicentro culturale e religioso: per la visita c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Da qui in fuoristrada si raggiungono le località montane di Mindat e Kampelet, nei cui dintorni vivono diversi sottogruppi della minoranza etnica chin, famosi per gli elaborati tatuaggi facciali delle donne e per la singolare abitudine di suonare il flauto con il naso. Conclusione nella capitale Yangon, la vecchia Rangon, caotica città portuale fluviale dove si mescolano vari stili: vittoriano, cinese, birmano e indiano; da non perdere il Grande Buddha sdraiato, lungo 70 m, il quartiere cinese e la Shwedagon pagoda, uno straordinario monumento artistico e di fede che da solo meriterebbe un viaggio.