Testo di Anna Maria Arnesano e foto di Giulio Badini
Non troverete nessuno, nemmeno tra i grandi viaggiatori abituati a visitare anche gli angoli più remoti del pianeta, che possa raccontarvi di essere stato in Angola. Eppure questo paese confina a sud con la Namibia, una delle nazioni più belle e interessanti dell’Africa australe, molto frequentata dagli appassionati del Continente Nero anche per la sua valida ricettività turistica. La spiegazione risiede nel fatto che l’Angola, per cinque secoli colonia portoghese grande quattro volte l’Italia e potenzialmente tra gli stati più ricchi del continente per la presenza di importanti giacimenti di gas, petrolio, diamanti, ferro e tanti altri minerali, con una bassa densità umana, una florida agricoltura favorita dal clima e dall’abbondanza di acqua e ottime possibilità di pesca lungo i 1.600 km di costa atlantica, per quarant’anni è stata travagliata da una ferocissima guerra civile che ha prodotto un numero rilevante di morti, feriti e sfollati, la distruzione di ogni struttura produttiva e messo in ginocchio l’economia. Ora che dal 2002 le armi tacciono, è possibile pensare di andare ad esplorare quanto meno la regione meridionale. La regione sud angolana presenta infatti strette analogie con quella del Kaokoland namibiano: un altopiano interno verdeggiante con clima tropicale secco ad una altitudine tra i 700 ed i 1.000 m, una catena montuosa ad occidente con cime capaci di superare i 2.000 m che scende con una ripida scarpata su una pianura costiera semidesertica, con le dune che si smorzano sull’Atlantico.
E anche le popolazioni sono le stesse: sparuti gruppi di cacciatori boscimani con la loro misera tecnologia preistorica, agricoltori ottentotti dalla parlata schioccante, pastori herero con gli incredibili ampi abiti ottocenteschi europei delle loro donne e, soprattutto, gli himba, popolazione nomade che vive stentatamente ancora immersa nella preistoria, con donne bellissime che abitano quasi nude in capanne di rami e paglia con il corpo spalmato di grasso e di argilla rossa, adornate da pregevoli monili di ferro, osso e conchiglie. Le difficoltà di accesso a questo territorio, sede per decenni di attivi scontri tra truppe governative e miliziani cubani da una parte e ribelli nazionalisti e forze sudafricane dall’altra, e che ha ospitato per lungo periodo anche le basi della guerriglia indipendentista namibiana, hanno permesso il mantenimento di uno straordinario equilibrio tra ambiente naturale e popolazioni locali, che un viaggiatore colto e curioso non può perdersi. Nonostante si tratti di uno degli stati più estesi dell’Africa australe, e la natalità risulti parecchio alta (ogni donna qui concepisce 7 figli, contro una media africana di 5), l’Angola si presenta come un paese spopolato, con una densità di appena 8,6 abitanti per kmq, un record negativo per l’Africa subsahariana.
Le ragioni vanno ricercate vicino e lontano: per oltre tre secoli gli angolani hanno pagato il maggior tributo allo schiavismo americano, tanto da poter essere definita “la madre nera del Nuovo Mondo”, dove non furono responsabili soltanto i colonialisti lusitani, ma gli stessi capi e le tribù locali più forti; nel 1830, alle fine dello schiavismo, il paese era svuotato come se fosse passata la peste, mentre nelle vene di molti neri brasiliani, cubani e dominicani scorre sangue angolano. Poi, assai più recente, la guerra civile spalleggiata da Usa e Urss ha fornito il suo non trascurabile contributo con 1,5 milioni di morti e 4,5 milioni di sfollati, senza conteggiare i feriti. Infine una delle durate medie di vita tra le più basse del mondo e una mortalità infantile tra le più alte chiudono il cerchio.
Da Lubango, principale città del sud dall’architettura portoghese situata sul verde e temperato altopiano punteggiato da manghi e baobab, con un percorso mozzafiato si scende un dislivello di 2.000 m fino all’oceano, fronteggiato da aride savane. Puntando a sud, inizia a prevalere il deserto, fino a raggiungere la stupenda e incontaminata Baia dos Tigres, dove enormi dune striate si tuffano nell’Atlantico disseminato di relitti arenati tra i quali nuotano i delfini, obbligando le vetture a procedere sulla stretta battigia, tra un’onda e l’altra, occupata da una miriade di uccelli marini. Si arriva così alla foce del Kunene, fiume in uscita da un canyon che segna il confine con la Namibia, per entrare nel misconosciuto e selvaggio parco nazionale di Iona, creato nel 1937 e esteso quanto il Veneto, abitato da branchi di orici, gazzelle, struzzi e zebre e da pastori nomadi himba. Tra boschi di acacie e mopane si risale infine la falesia dell’altopiano per tornare a Lubango.
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