Roma. Galleria Russo, Via Alibert 20
(fino al 2 marzo 2017)
di Luisa Chiumenti
Thayaht (al secolo Ernesto Michahelles), è una figura molto interessante nell’ambito del movimento Futurista, per una sua particolare originalità, sia nella scelta delle tematiche, che nella grafica e nella raffinata, poliedrica espressività creativa che lo presenta come pittore, scultore, fotografo, stilista di moda, disegnatore, architetto, inventore ed orafo. Si tratta in effetti di un artista eclettico ed innovatore, rivolto ad esperienze innovative, pur nell’ambito di un così variegato e vasto movimento, qual’era appunto il Futurismo. Sarà comunque sul finire degli anni Venti che Thayaht si avvicinerà al Futurismo toscano esordendo anche come scultore, “dando avvio”, come ricorda la curatrice Daniela Fonti, “ad una produzione non molto estesa ma di estrema originalità, che costituisce uno dei vertici della ricerca plastica del Futurismo rilanciatosi ai primi anni Trenta”.
Presentata in anteprima ad ArteFiera Bologna (dal 27 al 30 gennaio 2017), la rassegna è stata curata da Daniela Fonti con la consulenza dell’Archivio Seeber Michahelles e con l’Associazione per il patrocinio e la promozione della figura e dell’opera di Ernesto e Ruggero Alfredo Michahelles.
Circa duecento le opere presenti in mostra, tra sculture, disegni e dipinti che coprono il periodo della sua attività dal 1913 al 1940, affascinando il visitatore nelle atmosfere che si realizzano nelle varie sale della galleria, tra gusto Decó e avanguardia futurista, fra sculture, oggetti d’arte applicata, pitture ed illustrazioni grafiche, scenografie ed opere di grafica pubblicitaria, oreficeria e arredamento. Il suo segno si distingue ovunque per le “linee e le forme sintetiche, che attraverso precise geometrie esprimono una squisita eleganza”. La mostra ospita così alcune delle sue più celebri sculture, come la “Bautta”, il “Violinista”, la “Sentinella”, il “Flautista”, il “Tennista”, i “Pesci”, per non parlare di quel suggestivo quanto “scenografico Tuffo”, che l’artista presentò alla Biennale di Venezia del 1932.
I bellissimi disegni presentati in mostra ed eseguiti fra le due guerre sono stati scelti dai suoi taccuini personali che testimoniano l’esistenza, nel suo “privato”, di un “mondo estetizzante, innamorato dei giovani corpi stesi al sole e della natura della Versilia, nella quale trascorreva molti mesi dell’anno, e nella quale si ritirò, deluso dal crollo delle speranze di rinnovamento sociale accese dal fascismo, dopo i cupi anni della guerra”.
Ma veniamo ad una sua creazione specifica assai particolare: il disegno a inchiostro e acquerello su carta che riproduce la “tuta”, inventata dall’artista nel 1919 insieme al fratello Ruggero Alfredo Michahelles (in arte Ram), basata sui noti concetti di funzionalità espressi da Balla. La tuta (nata a Firenze, nell’estate del 1920), che appare quale “emblema del percorso artistico di Thayaht improntato a collegare sempre estetica e funzione, eleganza ed economia”, è davvero testimonianza di un abito assolutamente innovativo “e ricco di futuro che la storia della moda italiana abbia prodotto” (così come riporta Daniela Fonti nel suo saggio in Catalogo, dal giudizio di un critico). Ideata come “modello a T, a linee rette, in canapa colorata o cotone grezzo, la tuta, risultato finale di una serie di studi, diagrammi e disegni, è stata in effetti concepita come abito destinato a a tutte le classi sociali. Ed è assai curioso ricordare con la curatrice, come “Con la tuta si consolidasse anche il suo pseudonimo, da subito il palindromo TAYAT, poi dalla fine del 1918 mutato in THAYAHT, sulla cui misteriosa origine sono state fatte diverse e attendibili ipotesi, di natura esoterica, alle quali forse conviene aggiungere, senza insistervi troppo, la dominanza delle “T”, morfologicamente simili all’indumento, e l’assonanza con il tight, l’abito maschile di gala contestato dal nuovo vestito rivoluzionario”.
E ancora riportiamo dal saggio di Daniela Fonti, le seguenti acute riflessioni sul significato profondo di tale invenzione: “La linea semplice e comoda e tale da favorire ogni movimento del corpo agevolandone lo slancio e il naturale dinamismo appartiene anche all’ “abito maschile futurista” ideato da Giacomo Balla nel 1914; come la tuta è pensato per rompere il grigiore e la monotonia del vestito da uomo nel paesaggio urbano, ma resta nella dimensione creativo-artigianale caratteristica di tutta la produzione di Balla nel settore e non approda all’idea rivoluzionaria della realizzazione in serie favorita dalla razionalità del taglio e dal geometrismo simmetrico della linea. Formulata a Firenze e divulgata attraverso il più cittadino dei suoi quotidiani, la tuta intercetta ed in gran parte anticipa una riflessione sul tema del rapporto fra corpo ed abito di portata internazionale (dagli “abiti simultanei” di Sonia Delaunay ai vestiti prodotti al Bauhaus); se la collochiamo in una problematica più ampia di quella stessa già dilatata posta dal Futurismo, ne coglieremo le valenze “rivoluzionarie” in merito al riconosciuto rapporto fra il corpo umano visto come un sistema dinamico, riconsiderato in base alle sue potenzialità cinetiche e il nuovo senso della spazialità polidimensionale postulato dalle avanguardie pittoriche, cubiste e futuriste in testa.
E’ in mostra anche il logo della “Maison Vionnet” ideato dall’artista: “un peplo a forma di “V” sorretto da una figura impostata su una colonna ionica, che si caratterizza per la perfetta armonia tra il corpo della donna e la veste, per le raffinate soluzioni stilistiche nel trattamento della linea, oltre che per la rarefazione dei volumi, in piena sintonia con l’atmosfera Déco del tempo”. La mostra è stata corredata da un catalogo a colori edito da Manfredi Edizioni (Cesena) con testi critici di Daniela Fonti, Carla Cerutti ed un contributo di Elisabetta Seeber.
Per informazioni:
www.galleriarusso.com ;
tel: 06 6789949 – 06 69920692