Uno sguardo particolare sulla storia di un settimanale entrato nel mito
Le copertine di “Grand Hotel” al Museo della Montagna di Torino
Fino al 19/04/2015
Testo di Michele De Luca
I sogni – ha scritto Giovanni Pascoli – “sono l’infinita ombra del vero”, e come tali si modificano in rapporto ai mutamenti della realtà sociale. Correva l’anno 1946: gli italiani avevano appena votato per scegliere un nuovo sistema politico, e da più parti si intravvedevano i segni di una grande volontà di riprendere, di ricominciare e di ricostruire; le piaghe dolorose della guerra andavano presto risanate e dimenticate in fretta, per sperare in un futuro radioso, sereno e pieno d’amore. Si trattava di speranze, perché la realtà rimaneva tutt’altro che rosea. In questo contesto, connotato da grandi trasformazioni in atto nell’economia e nella società e da rinnovata fiducia nel futuro, va collocato il successo immediato e grandioso di un settimanale, destinato soprattutto al pubblico femminile, che ne divenne il più consistente e diffuso “bacino d’utenza”, e cioè di “Grand Hotel”, che in quell’anno vide la luce grazie all’intuito, all’intraprendenza e alla lungimiranza dei fratelli Alceo e Domenico Del Duca, proprietari delle Edizioni Universo.
L’idea era quella di offrire ad un prezzo basso, un periodico basato su storie d’amore disegnate a fumetti, che vide tra i suoi disegnatori il famoso Walter Molino, il quale realizzò anche il logo della testata, e Giulio Bertoletti, le cui copertine, ricche di colore delinearono la storia del costume nazionale attraverso l’evolversi della moda e l’emancipazione femminile. Ai fumetti subentrerà il fotoromanzo, ideato da Stefano Reda, che al disegno sostituirà la fotografia, e che vide la partecipazione di tanti attori di cinema e di teatro già famosi o che lo sarebbero diventati. A questa vera e propria “fabbrica di sogni”, con le sue storie d’amore sempre raccontate con un linguaggio pulito, romantico, ma già disincantato, fa riferimento una nuova proposta espositiva del Museo Nazionale della Montagna di Torino, che propone un variopinto viaggio alla scoperta dell’Italia postbellica attraverso settanta copertine di quella che ancora oggi è una delle riviste più popolari, dove la montagna diventa luogo di evasione, di salubrità, di innocenti svaghi, complice di momenti gioiosi e idilliaci.
La mostra (“L’Italia di Grand Hotel. Il sogno e la montagna”), curata da Silvio Saffirio – autore anche di un interessante testo di presentazione; in catalogo anche una “testimonianza” di Orio Buffo, attuale direttore del periodico -, offre spunto per guardare, oltre il tema trattato, ad un universo, quello della stampa “femminile”, a cui nel 1990 dedicò un magnifico volume Ermanno Detti (Le carte rosa, pubblicato da La Nuova Italia), in cui contrapponeva a chi ipotizzava che si trattasse di uno strumento creato dalla borghesia per evitare che la donna si dedicasse a letture più impegnate, la sua conclusione che il successo di testate come “Grand Hotel”, invece, risiedesse “proprio nella presenza del sentimento, nella possibilità di avere un angolo segreto in cui vivere, sia pure virtualmente, sensazioni di calore ed emozioni profonde”. Il volto dei protagonisti, però, doveva apparire anche familiare, cioè richiamarsi ad icone e “miti”, specie del cinema, sedimentate nell’immaginario collettivo, per dare al “sogno” voli verso mondi in cui il successo dei divi, la loro vita privata, i traguardi raggiunti, si confondevano inestricabilmente con la finzione, con la loro immagine immortalata dalla pellicola, con i personaggi rappresentati, con le copertine dei rotocalchi tipo “Bolero Film”, con i calendarietti dei barbieri. Non a caso, negli anni successivi alla sua nascita, oltre ai fotoromazi, “Grand Hotel” darà sempre più spazio alle rubriche di attualità dedicate in primo luogo al cinema e alle cronache rosa del mondo dello spettacolo, pubblicando, negli anni Sessanta, in ogni numero il ritratto fotografico, a colori vivacissimi e a tutta pagina degli attori più famosi e più amati dal pubblico femminile (ma non solo). Quindi, molto spesso, già nelle storie a fumetti del settimanale, molto spesso il volto degli eroi ricalcavano quelli di attori famosi, da Clark Gable a Stewart Granger, da Marilyn a Rita Hayworth.
Sulle copertine delle prime annate di “Grand Hotel”, tra cui i preziosi esemplari esposti al Museo della Montagna sorto centoquaranta anni fa’ sulla collina del Monte dei Cappuccini, dove si gode una visione alpina davvero mozzafiato, è quasi sempre rappresentata una coppia di giovani, sereni e sorridenti, nelle più svariate location, dove spesso praticano attività sportive, come a voler sottolineare che l’amore, unito all’esercizio fisico, permette e promette un’eterna gioventù. Talvolta, specie nei disegni di Molino, la tavola è ironica e ammiccante, seducente e insieme maliziosa. Da queste copertine – nel caso specifico a tema alpino, tra sciate, capitomboli sulla neve, funivie, seggiovie, escursioni, ristoro in alta quota, brindisi di buon anno sulla neve, alpeggi, pastorelli, orsetti smarriti e ritrovati, piccozze e stelle alpine, arrampicate e relax nei rifugi – sempre sprizzanti gioia di vivere, affiorava comunque una realtà più profonda, specchio di una società che si lasciava alle spalle i dolori e le angosce di una lunga e sanguinosa guerra per guardare e aspirare ad un “roseo” futuro: i sogni, le aspirazioni più intime, le chimere e la ricerca continua di quello felicità di cui solo nei momenti in cui sboccia l’amore, come i fiori lungo i percorsi alpini, avvertiamo i segni più potenti. Come scriveva ancora Detti, “per comprendere davvero il rosa non dobbiamo porci nella prospettiva di come eravamo ma di come sognavamo”.