Palazzo Braschi . La scuola italiana dei costumisti per il cinema.
(fino al 22 marzo 2015)
Testo di Luisa Chiumenti
Un secolo di storia del cinema viene celebrato, in uno sfarzo di colori, abiti originali nelle loro stoffe pregiate, bozzetti e oggetti storici nella bella mostra ” I vestiti dei sogni ”, allestita a Palazzo Braschi. Curata da Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna (con la collaborazione di Antonio Bigini e Rosaria Gioia), l’esposizione offre un percorso attraverso l’eccellenza degli artigiani italiani del settore, fra cui si annoverano numerosi Premi Oscar, come Piero Tosi, Danilo Donati e Gabriella Pescucci e Milena Canonero, che, oltre ad essere tre volte vincitrice (con Stanley Kubrick per “Barry Lyndon”, e poi per “Momenti di gloria” e in anni recenti per la “Marie Antoniette” di Sofia Coppola) ha appena ricevuto anche la sua nona nomination alle statuette per The Grand Budapest Hotel.
La mostra accompagna lungo un percorso davvero affascinante che si svolge dalle origini ai giorni nostri, dalle dive del muto, al film di Paolo Sorrentino, che ha saputo donare un nuovo Oscar al cinema italiano. Si inizia infatti con l’ammirare il lavoro di Lyda Borelli, come protagonista e autrice in “Rapsodia satanica” di scelte impareggiabili per vesti che hanno determinato un intero immaginario estetico, per arrivare a Tony Servillo, testimonianza di una sorta di “eclettismo contemporaneo”, improntato pur sempre su “quei tagli e quei colori di abiti già divenuti ovunque un cult”. Ed ecco poi presentati gli Oscar ottenuti dal caposcuola Piero Tosi (alla carriera, nel 2013) e Danilo Donati (nel 1969 per “Romeo e Giulietta” di Zeffirelli e nel 1977 per “Il Casanova” di Fellini), e a Gabriella Pescucci (al lavoro con Martin Scorsese per “L’età dell’innocenza”): tutte figure eccezionali sia per fantasia che per l’alto livello del lavoro artigianale, che guidano il visitatore alla scoperta di una mostra che non è certo soltanto una “galleria di abiti”, ma esalta l’alto significato di una scuola e di una tradizione artigiana italiana che ha dato lustro al nostro cinema, sottolineando anche il valore e l’abilità dei disegnatori dei costumi e di chi poi li ha realizzati.
Dalla Tirelli costumi ad Annamode, Costumi d’Arte, Devalle, Farani, Maison Gattinoni, The One, Sartoria Cesare Attolini. Interessante è quanto viene sottolineato negli atteggiamenti della famosa Francesaca Bertini e dell’uso altamente espressivo che riusciva a fare anche di un semplice grande scialle bianco, con cui l’attrice riusciva a dar vita ad un recitazione tutta sua, fondata “più che sull’atto del dire”, su quello “dell’apparire” (Gerado Guccini). Ed ecco come , ad esempio, “Assunta Spina” (1915), di Gustavo Serena e Francesca Bertini si apre con un’immagine che utilizza appunto la suggestione dello scialle per un uso “espressivo”, se così si può dire, del tutto personale. Se infatti sullo sfondo del golfo appare la figura della donna avvolta nello scialle, ella poi lentamente lo toglie, se lo avvolge intorno alla vita e, ponendosi di profilo, volgendo il capo, con uno sguardo obliquo, sembra dirigersi verso un punto lontano. Ed è importante notare come, prima che il costumista diventasse una figura professionale, ciò che avvenne soltanto tra gli anni’20 e ’30 del ‘900, ciascun attore dovesse occuparsi personalmente dei propri abiti sul set.
E così Lyda Borelli fu un’abile costumista di se stessa, adattando allo schermo quello che coglieva studiando la produzione sartoriale del suo tempo, come in “Rapsodia satanica” dove ella indossa un “Delphos” , celebre creazione di Mariano Fortuny ispirata alle tuniche greche. Il Delphos appare realizzato con una fitta plissettatura, tecnica brevettata dallo stesso, che permette all’abito, tagliato secondo una foggia cilindrica, di modellarsi naturalmente sulle curve del corpo femminile. E troviamo in una sala uno dei pionieri nell’ambito del costume cinematografico: Luigi Sapelli (1865-1936), in arte “Caramba”, che viene chiamato ad offrire la sua opera al cinema, essendo già sarto teatrale di successo. Il suo lavoro si impose subito non solo per il disegno dei costumi, ma anche per la scenografia e la regia, a partire dal 1913, con “I promessi sposi” e “Gli ultimi giorni di Pompei”. Sue sono anche le rievocazioni dantesche de “La mirabile visione” (1920) e le fastose creazioni realizzate per il “Cirano di Bergerac” (1922) di Augusto Genina, in cui appare tutto il godimento che prova nel “piacere tattile” delle stoffe, combinando tinte ed aiutandosi con una sorta di “amalgama della più disparata alchimia” (v. Vittoria Crespi Morbio). Caramba disegnava e realizzava gli abiti all’interno della propria sartoria “Casa d’arte Caramba”.Maria De Matteis (1898-1988)dà un’interpretazione psicologica del personaggio e della sua evoluzione, solo attraverso l’abito e ne dà un grande esempio in “Guerra e Pace” di King Vidor. “Il costume è la pelle di un personaggio”, ella affermava, il rivestimento esterno di una persona in un ruolo” . E Piero Tosi fu il grande erede della scuola della De Matteis elo si può vedere nella realizzazione del “Gattopardo” di Visconti. Ma nella bella cornice di Palazzo Braschi, non possiamo non menzionare anche il valore dell’originale “percorso di luce” immesso da Luca Bigazzi e Mario Nanni.
Senza dubbio una mostra da vedere e rivedere per poterne cogliere tutte le angolazioni e gustarne il fascino evocativo di tante atmosfere a cui, nel tempo, ha dato vita il nostro Cinema.
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