una mostra alla Galleria Russo
Roma, Via Alibert
(fino al 22 maggio 2021)
di Luisa Chiumenti
Entrando nelle sale della storica Galleria Russo ( fondata nel 1898) che fu luogo di incontro per molti pittori del secolo scorso, sembra davvero di affacciarsi allo Studio stesso di Giacomo Balla, avvolti dalle atmosfere particolarissime create da quei suoi schizzi preparatori, dai disegni inediti, dai bozzetti fantasiosi, oltre che dalle numerose tele. “Giacomo Balla. Dal primo autoritratto alle ultime rose” è il titolo della mostra che, attraverso circa 80 opere suscita appunto questa emozione nel visitatore, che si avvicina a questa sorta di “mondo” fantasioso, con la guida dell’attento curatore, Fabio Benzi, di fronte alla creatività di un artista che ha attraversato diversi periodi della sua formazione, aderendo ai vari movimenti che si sviluppavano in Italia in quegli anni, primo fra tutti il Futurismo. Ed è molto giusto quanto asserisce proprio il curatore nella introduzione al Catalogo: molti dei materiali presenti in mostra provengono direttamente da Casa Balla. “Come entrare nello studio dell’artista e aprire decine di cassetti scoprendo la genesi di capolavori e opere di studio, penetrando nei segreti nascosti dei dipinti a volte più celebri, a volte più privati, ma sempre partecipando di un furor creativo indiscutibile e prepotente, che ci mostra fasi finali e iniziali di un percorso unitario, di un rovello instancabile”.
Il percorso artistico di Balla si presenta davvero molto intenso, di ben cinquant’anni di lavoro mai interrotto, a cominciare dal piccolo olio del suo primo autoritratto (1894) dipinto curiosamente sul retro di una fotografia di lui stesso bambino con un “gioco di specchi inconsueto, eccezionale e imprevedibile. Ed ecco così come ci si trova di fronte al successivo “Ball’io” (1940), un pastello del 1940 rimasto nella casa di via Oslavia “a cui in famiglia ci si riferiva scherzosamente come al ritratto del Professor Piccard. A quanto pare per via dei capelli grigi arruffati che molto ricordavano la capigliatura del famoso scienziato, in quel tempo”, come ricorda Elica Balla, “impegnato nell’esplorazione dei “fondi marini con la sua batisfera” . Ed ecco lo scorrere delle esperienze che, dopo il periodo divisionista, presente in una serie di bozzetti e studi preparatori per le tele del Ciclo dei Viventi, (opere di vertice della fase pre-futurista realizzate tra il 1902 e il 1905), lo portano ad avviarsi a quella che si è potuta chiamare come ”iinvenzione della lingua futurista”. Nell’aprile del 1910 Balla controfirmava il “Manifesto dei pittori futuristi”, che era stato redatto nel febbraio di quell’anno e controfirmava poi, anche sollecitato dal giovane allievo Boccioni, il successivo “ Manifesto Tecnico della pittura futurista”.
E sarà tra il 1912 e il 1913 che Balla, con gli studi di “compenetrazioni iridescenti e delle “velocità d’automobile”, “assumerà un ruolo maturo nell’ambito del movimento, impegnandosi nella ricerca di termini linguistici capaci di esprimere in maniera originale, concetti estetici tanto nuovi”, così come sottolinea Benzi nella introduzione al Catalogo della mostra, da lui curato ( ed. Manfredi). Si tratta di un excursus completo dell’attività creativa di Balla che la mostra della Galleria Russo fa cogliere attraverso dipinti, ma anche disegni, su cui è piacevole soffermarsi, come ad esempio un pastello e gesso su carta che ci porta a Villa Borghese, con una veduta molto originale in cui il pastello viene usato dall’artista, insieme con la luce, in una sperimentazione davvero innovativa sì, ma che fa addirittura ripensare alla maniera leonardesca.
E del resto riportiamo qui una curiosa osservazione dello stesso Balla, che dice di sé: “Nel ‘500 mi chiamavo Leonardo”, ma era forse per la sua tendenza ad occuparsi di ogni ramo dell’espressione artistica: pittura, architettura, arredo d’interni, arti applicate scandagliate a 360 gradi, grafica, moda, fotografia, scenografia, cinema, danza, recitazione, che avrebbero poi fatto sorgere quello splendido laboratorio ( di prossima riapertura) che, assistito dalla moglie Elisa e dalle figlie Luce ed Elica, avrebbe creato nella casa di via Oslavia, in cui furono creati mobili, suppellettili, oggetti d’uso comune.