Di Viviana Tessa
La femminilità? E’ un dono, anzi è un privilegio. Di poche, ovviamente, come tutte le cose di valore. E non c’è niente di peggio di quante credono di averla scambiandola per erotismo o nudità. Che sono cose attraenti, ma distanti dall’originale come un sorriso rispetto a una risata, un sussurro da un grido, una carezza rispetto ad un ceffone. Femmina si nasce. Ma, non illudiamoci, la femminilità è un’altra cosa. La femminilità è molto di più dell’esser donna, è un’attitudine mentale, è un modus vivendi. La femminilità circola nel sangue, serpeggia sotto la pelle. Non s’impara in nessuna scuola, la si ha o non la si ha. Non è classe, non è seduttività, non è civetteria, non è bellezza, non è fascino, non è dolcezza. O forse è tutte queste cose insieme e altro ancora. Per carità non scambiamola con la seduzione, che si gioca tutta di un momento; strumento per attrarre, atteggiamento artato per affascinare in una certa occasione.
La femminilità, invece, è uno status. E’ sempre visibile, non si perde mai. La donna, se lo è, può essere femminile persino chiusa in uno scafandro, infagottata in una tuta. Femminilità è un gesto delle dita, un’abbassar di ciglia, un modular della voce, uno schiudersi di labbra. E’ un’incedere elegante. Lo scatto morbido della chioma fluente di Rita Heyworth nell’immortale Gilda. E di femminilità, certo, parlava Kant, nell’”Antropologia”, quando ci disse che la donna ha la missione d’ingentilire l’umanità. Confermando che in Francia il linguaggio femminile, diffusosi nell’alta società, aveva influenzato la maggior benevolenza che si trova nei francesi, la loro gentilezza, la loro amabilità. Il fascino femminile, è ancora Kant a dirlo, determina una dinamica tra uomo e donna in cui il bel sesso esercita un potere reale sull’altro. Un fascino che poco ha a che vedere con la bellezza, visto che la donna leggiadra attrae, mentre una interiormente bella commuove.
La femminilità rende sublimi persino le debolezze. Come la vanità, cioè la capacità della donna di ravvivare le proprie attrattive, che diventa un piacevole vezzo se unita al buongusto. Un gusto fine che ha ancora un rapporto profondo col pudore, con un certo nascondersi e svelarsi poco a poco. Perché le bellezze spirituali avvincono di più se si manifestano man mano, lasciandone supporre altre. E altre ancora. Questa è la femminilità, una forza naturale così ricca da provocare continuamente la prospettiva di bellezze inesplorate e l’interesse vivo di chi ne gode. Pudore, si diceva. In passato era grazia e fascino oltre misura. E le donne erano così consapevoli dell’importanza di conformarsi ad una bellezza sublimata e interiore, che tenevano a mantenere un certo pallore del volto, quasi che esso, più del colorito roseo, si confacesse a una profonda bellezza dell’anima. Un consistente tributo agli stereotipi del tempo! Tant’è, la femminilità non ha epoche, né schemi, né dettami.
Desmahis, commediografo francese del ‘700, si compiace di rappresentare il fascino femminile, la civetteria, l’immaginazione della donna; Diderot ne sottolinea la leggiadra sensualità. Per Rousseau il pudore è una strategia escogitata dalla natura per arginare l’esuberanza della femminilità. Montesquieu nota che sono le donne a creare il buon gusto. Persino Nietzsche chiama in causa la femminilità facendone la chiave di lettura della saggezza vista non più come vitalità della forza, ma della tenerezza. La famiglia resta una forma eminente, il luogo tipico del ministero femminile, ma la femminilità non esaurisce il ruolo della donna nell’essere moglie o madre. La femminilità è più che l’esser donna. E’ un habitus. E’ la sublimazione della bellezza, la connessione fra fascino e anima.
E come tale ha contribuito ancor più della virilità dell’uomo al progresso della civiltà, alle sue regole estetiche e formali. Collante e motore della civiltà. Ma, la femminilità, è un bene in estinzione? Forse, le giovani d’oggi la temono e la nascondono? Forse. Non più per paura di sembrare audaci, ma per amore di modernità. E sono legittimate a farlo visto che nell’immaginario collettivo, alimentato persino dagli stilisti cosiddetti classici, la donna d’oggi è a volte nascosta in palandrane informi con scarponi più giusti per attraversare una palude che per passeggiare per il corso cittadino. Non più chiome fluenti alla Gilda, ma zazzerette maschili, dei colori dell’iride. D’accordo, l’abito non fa il monaco. D’accordo, la moda impone una massificazione che crea il gruppo, unico ambito in cui ormai ci si riconosce. Ma dov’è finita la femminilità? Di quali codici si serve per comunicare? Quali i segnali? Forse, una civiltà in crisi, rinuncia al lievito che l’ha fatta crescere?