Testo di Teresa Carrubba
“Mangiapolenta e mangiamaccheroni”. Il detto popolare che infierisce sull’eterna spaccatura tra Nord e Sud in realtà non ha radici troppo profonde. Almeno secondo i testi storici i quali riferiscono che i polentoni più accaniti nell’età classica fossero proprio i Romani. Il nome stesso, “ pulmentum” lo inventarono loro, grandi mangiatori di pappette calde a base di cereali macinati. E’ vero che alcune ricette le avevano copiate al Nord, le “pultes julianae” , ad esempio, che gli abitanti dell’attuale Friuli preparavano con farina di spelta (cereale simile al frumento) cotta con latte, formaggio e grasso di carne. Ma è anche vero che gli antichi Romani ne inventarono di proprie. Tipica una polenta di farro e orzo amalgamati con formaggio e uova, di cui pare fosse molto ghiotto Catone.
I gourmet dell’epoca vi aggiungevano qualche cucchiaiata di “garum”, potente intruglio di pesci macerati e sfatti in una brodaglia di vino, aceto, spezie ed erbe aromatiche. D’altronde, quando arrivò da noi la polenta vera, quella fatta con il mais che Cristoforo Colombo importò in Europa, i primi a metterla in tavola furono i napoletani. Prima ancora che i veneti inventassero la “polenta e osei”, forse a Napoli si mangiava già la polenta pasticciata, in Calabria la polenta insaporita con verdure e carne di maiale e in Abruzzo e nel Lazio la polenta con le spuntature. Non facciamone comunque una questione di primogenitura, altrimenti dovremmo ammettere che il titolo di “ mangiapolenta” spetti addirittura ai nostri antenati delle caverne.
Pare infatti che, non appena scoperto il modo di accendere il fuoco, i nostri progenitori si accorsero che era possibile cuocere in acqua più specie di semi spezzati, ottimi integratori per la loro alimentazione quasi esclusivamente carnivora.. In ogni caso, al di là delle origini, la polenta assicurò sempre una tranquillità alimentare. Facile da piantare in terreno umido che non necessita di aratura, velocissimo nella crescita, l’”oro giallo” ( così come Maya e Aztechi chiamavano il mais) non solo è portatore del frutto finale, cioè il grano, ma permette anche raccolti intermedi come canne e foglie da cui ricavare zucchero e bevande alcoliche, pannocchie appena sbocciate da gustare abbrustolite o lesse, tronchi per costruire tetti per abitazioni. Maya e Aztechi ne veneravano a ragion veduta la dea protettrice,Xilotl. La diffusione del cereale in Europa non fu rapida e comunque la polenta fu a lungo considerata un cibo per poveri. Finalmente, ma siamo già nel ‘700, anche i ricchi banchetti dell’aristocrazia accolgono la “gialla novità”.
La polenta, in tutte le sue varianti, conquista anche i palati raffinati, dà nome ad accademie, circoli e società. Ai nostri giorni, grazie all’inventiva della buona cucina regionale italiana, ne vantiamo numerose varietà e ricette. Le differenze cominciano dalla farina di granoturco che può essere fina o finissima per ottenere una polenta morbida oppure granulosa, la cosiddetta “bergamasca”, per essere tagliata a fette. Le salse, i condimenti e le pietanze da accompagnare, fanno il resto. La preparazione di base, intesa in modo tradizionale, è sempre la stessa. Un paiolo di rame non stagnato, con tanto di manico per appenderlo al camino e un cucchiaione di legno sono i classici arnesi per la grande fatica. Perché di fatica si tratta, anche se il gioco vale la candela. Si mette il paiolo sul fuoco con acqua e al primo bollore si versa a pioggia la farina gialla, lentamente affinché non interrompa il bollore e non faccia grumi. E si inizia a mescolare senza interruzione, per circa un’ora! Soda e fumante sul tagliere di legno, filo pronto ( mai il coltello!), per affettarla. Condimento o pietanza d’accompagno ben caldi. Ed è capolavoro.