Testo di Anna Maria Arnesano Foto di Gioulio Badini e Archivio
Se avete il fisico (e la mente) e amate i viaggi tosti d’avventura per esplorare territori incontaminati e incontrare popolazioni selvagge e sconosciute, non è che il mondo globalizzato di oggi offra un gran che. Per questo sarebbe stato necessario nascere un po’ di tempo fa. Ma un luogo capace di rispondere a simili prerogative, con parecchie macchie bianche sulla carta geografica, forse esiste ancora. Si tratta del West Papua, ex Irian Jaya, cioè la parte occidentale e indonesiana dell’isola di Papua Nuova Guinea (la seconda isola al mondo per dimensioni) nell’estremo sud-est asiatico, più vicino al nord dell’Australia che non all’Asia. Questa regione, grande una volta e mezzo l’Italia, è bagnata a nord dall’oceano Pacifico, a sud dal mare d’Arafura (tratto locale dell’oceano Indiano), e confina ad est con lo stato autonomo della Papua Nuova Guinea e ad ovest con le 17 mila isole che compongono l’Indonesia. Un territorio ondulato lungo 1.200 km e largo 736, coperto per il 75 % da giungle intricate e foreste pluviali tropicali, con al centro una impervia catena montuosa orizzontale che arriva a superare i 5.000 m (con nevai e ghiaccia perenni, nonostante si trovi poco sotto l’Equatore) e al sud pianure allagate e pantani a formare una delle maggiori foreste di mangrovie del pianeta. Dal XVII sec. fu protettorato e poi colonia olandese, ma gli insediamenti e la penetrazione si limitarono esclusivamente alle coste per le difficoltà di accesso nell’interno, l’ostilità dei nativi e il presunto scarso interesse del territorio (mentre ora sappiamo possedere i maggiori giacimenti di oro e rame del mondo). Si tratta quindi di una delle zone più selvagge e sconosciute della terra, dove ancora oggi ci si può muovere soltanto a piedi, in barca o in aereo perché non esistono strade. Ovviamente in questa terra, trascurata dagli uomini (estranei) ma non abbandonata da Dio (perché pullula di missionari), la natura domina sovrana, cosa che non capita spesso. Per la sua posizione intermedia, flora e fauna costituiscono un interessante punto di transizione e di contatto tra Asia e Australia, con parecchie affinità con quest’ultima alla quale appartenne in lontane epoche geologiche. Vi si possono infatti incontrare parecchi marsupiali come canguri arboricoli, orsetto cuscus, opossum e quoll, rettili con serpenti, coccodrilli, clamidosauri e varani, le lucertole più lunghe del mondo e alcune delle maggiori farfalle, 180 specie di mammiferi, 700 tipi di uccelli (di cui 450 endemici) tra i più colorati e variopinti (dal casuario grande quanto uno struzzo all’uccello del paradiso, dai cacatua ai pappagalli, fino all’unico volatile velenoso), e per finire 16.000 piante, di cui 124 endemiche, comprese innumerevoli orchidee. E ogni anno si continuano a scoprire piante ed animali sconosciuti.
Ma la vera chicca di questa regione, vero eden per etnografi e antropologi, è costituita dalle popolazioni umane celate nell’interno, qualche centinaia di trubù con altrettanti dialetti, alcune forse ancora ignote (nel 1998 furono scoperte due nuclei che comunicavano tra loro solo a gesti), altre che hanno conosciuto l’uomo bianco soltanto nella seconda metà del secolo scorso, tutte capaci di mantenere finora intatti i propri costumi ancestrali nonostante visitatori curiosi e missionari invadenti. Questi uomini di razza melanesiana, dalla pelle scura e dai capelli crespi, dal punto di vista culturale sono rimasti fermi alla preistoria, per l’esattezza al paleolitico, perché girano nudi o quasi e possiedono soltanto strumenti di pietra scheggiata, legno e osso, vivono di caccia, pesca e raccolta di frutti spontanei (solo qualcuno pratica l’orticoltura e alleva polli e maiali), ma non conoscono i metalli, la ceramica e la tessitura. Sono, o meglio erano, piuttosto scorbutici e bellicosi, si dilettavano a collezionare le teste mozzate dei nemici e, soprattutto, erano feroci cannibali, capaci di mangiarsi a pezzi o di cuocere le prede ancora vive. Retaggi di un passato, pur se molto recente, dirà qualcuno; speriamo proprio. Occorre al riguardo rilevare che, al di la degli aspetti rituali, l’antropofagia deriva e colma carenze croniche di carne e di proteine e il cannibalismo è stato una pratica comune in parecchie società primitive (e non). E nel cuore della Guinea occidentale si riscontra sicuramente una delle maggiori concentrazioni di tribù primitive.
Per ubicazione, habitat, economia, lingua, costumi ed altro ancora, le tribù papua sono molto diverse le une dalle altre, anche quelle più piccole, pur con alcuni denominatori comuni. I più famosi e numerosi sono i Dani, perché abitano la stupenda valle montana del Beliem, unica zona turistica di tutto l’interno (pur se raggiungibile solo in aereo) per stupendi scorci alpini, laghi, cascate, grotte e canyon. Gli uomini girano completamente nudi, protetti soltanto da un astuccio penico ricavato da una zucca (dove infilano però anche soldi e tabacco), con testa e corpo decorati con grasso di maiale, argilla e cenere, complicati copricapi con piume d’uccello, zanne di cinghiale nel naso e nelle orecchie, collane di conchiglie, denti di cani e di maiali; le donne indossano gonne vegetali. Vivono di caccia e pesca, ma sono ottimi coltivatori di patate dolci su piccoli terrazzi ben irrigati, dormono in capanne separate per sessi e le donne si astengano dalle pratiche sessuali per diversi anni dopo la nascita di un figlio, per cui è diffusa la poligamia, anche perché una moglie non costa più di 4-5 maiali, unica loro ricchezza. Ad ogni lutto le donne dovevano amputarsi la falange di un dito. Abbandonati da qualche decennio cannibalismo e guerre tribali, sostituiti da scontri rituali, banchetti, esibizioni e danze. La rete di sentieri che collega i villaggi ben si presta per il trekking, anche con ponti sospesi. I Koroway vivono invece in un’intricata e remota foresta pluviale tra paludi, raggiungibile solo con un giorno di canoa. Sono cacciatori e raccoglitori seminomadi ben fermi alla preistoria e ignoti del mondo, girano nudi con foglie di banani avvolte sul pene e abitano in capanne familiari sugli alberi a notevole altezza per proteggersi da animali, insetti, nemici e alluvioni. Sono noti soltanto dal 1974, quando erano ancora antropofagi. Gli Asmat infine abitano i pantani nella foresta a mangrovie della pianura meridionale, soggetta a notevoli maree, e sono gli artisti spontanei di Papua. Noti da solo mezzo secolo, vivono di caccia e pesca in grandi capanne comuni rettangolari su palafitte lungo le rive dei fiumi; bellicosi ex cacciatori di teste e cannibali, usano ancora come cuscini e trofei i crani delle loro vittime. Sono famosi per le sontuose cerimonie funebri e come abili scultori del legno, da cui ricavano maschere, tamburi, lance, pagaie e soprattutto totem elaborati alti anche 5 metri. Possiedono una complessa cosmogonia basata sugli alberi, da cui sostengono di discendere.
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