Testo e Foto di Anna Alberghina
La Dancalia è una regione del Corno d’Africa divisa fra i territori di Etiopia, Eritrea e Gibuti. Un posto unico al mondo con scenari da inferno dantesco e colori psichedelici, paesaggi di lava e distese saline accecanti come la banchisa artica. Una terra arroventata, abrasiva, dove la Creazione non è ancora terminata. Chi vi si avventura viene trasportato su di un altro pianeta dove bisogna dimenticarsi le comodità abituali ma si è ricompensati da visioni imperdibili. Un paesaggio marziano a 150 metri sotto il livello del mare, dove le temperature possono raggiungere i 60°C. E’ qui che l’umanità ha mosso i primi passi come ci racconta lo scheletro di “Lucy” ritrovato nel 1974 dal paleontologo Donald Johanson. Sino al 1928 della Dancalia si sapeva ben poco. Le scarne notizie arrivavano da coraggiosi mercanti. Raccontavano di terre riarse e spaventose, abitate da bellicose tribù nomadi. Due spedizioni italiane, quelle di Giulietti e di Biglieri vi furono massacrate alla fine dell’800. Poi più nulla fino all’inizio del ‘900 con Ludovico Nesbitt. Nei suoi diari ci parla della lunga marcia fra sabbie ardenti e rocce vulcaniche, dei suoi uomini uccisi dagli Afar o impazziti per il caldo e la sete. Ancora oggi, dopo tanti anni, la Dancalia non ha perso la sua brutta fama. Rimane uno dei luoghi più inospitali e pericolosi della terra, una “terra incognita” avvolta nel mistero.
Eppure è ancora contesa da due paesi, l’Etiopia e l’Eritrea, che non hanno mai smesso di farsi la guerra. La Rift Valley, la spaccatura che si estende per 6500 km. dalla Siria al Mozambico, la attraversa tutta come una ferita. In poco più di 200 km. si trovano dieci vulcani allineati lungo la fossa tettonica. Il più famoso è l’Erta Ale, “monte che fuma” in Amarico, un vulcano “a scudo” alto 613 m. innalzatosi con l’accumulo delle colate fuoruscite dal suo ventre. Scalare le sue nere pendici fino alla cima del cratere ci permette di affacciarci alle porte dell’inferno: un lago di lava perenne dove il magma ribolle incessantemente a 1200° C. Sul sentiero di cenere i nostri passi sono lenti, la lava riluce come uno specchio sotto i raggi della luna. Man mano che si procede, il pendio si fa più ripido. Camminiamo sulle onde pietrificate di un antico fiume di lava. Si aprono crepacci nel terreno, la crosta si sbriciola sotto i nostri piedi e diventa tagliente come vetro. Ci arrampichiamo come capre fra le rocce ma in lontananza i bagliori rossastri del vulcano sono un richiamo irresistibile. In questo ambiente estremo e ostile vivono gli Afar. Nesbitt li descrive come “feroci guerrieri, pronti a castrare o ammazzare ogni estraneo”.
Thesiger, un altro grande esploratore, ci dice che “valutavano il coraggio di un uomo in base al numero delle sue vittime”. Si sa poco di questa tribù semi-nomade e delle sue origini. Secondo alcuni, gli Afar sarebbero i discendenti di Arabi mescolatisi con una razza caucasica ed emigrati in Africa dalla Penisola Arabica. Altri attribuiscono loro un’origine Egizia. Parlano una lingua di derivazione cuscitica. Statura elevata, pelle scura, capelli lanosi e ricci, lineamenti fini, hanno adottato questo deserto bollente come loro patria. Le loro abitazioni, le “burre”, sono piccoli “igloo” con l’intelaiatura in legno, ricoperti di stuoie e stracci colorati. Spiccano come isolotti nel mare di sabbia e lava. I villaggi sono circondati da barricate di spine, fragile baluardo contro animali selvatici e nemici. Legati indissolubilmente al loro bestiame, gli Afar sono costretti a continue transumanze. Quando le greggi necessitano di nuovi pascoli, caricano i loro averi sui dromedari e si mettono in cammino, lo sguardo fisso in avanti. Pur essendo musulmani Sunniti, convertiti nel X secolo sotto la pressione dei mercanti arabi, si sentono soprattutto Afar. L’organizzazione sociale è patrilineare e le famiglie sono, per lo più, monogamiche. I matrimoni, preferibilmente fra cugini, sono veri e propri contratti che regolano i rapporti fra clan. Ancora oggi praticano la circoncisione maschile e l’infibulazione femminile. Mangiano pane e latte.
La “borgutta”, un impasto di farina e acqua, viene cotta sul fuoco avvolta su di una pietra bollente. Bruciata dentro e fuori. Unico sostegno durante le dure giornate, i ramoscelli di “khat”, le foglie maledette che donano euforia e tolgono la fame. Dai tempi di Nesbitt il loro rapporto con gli stranieri è naturalmente cambiato. Si sono organizzati per gestire il modesto flusso turistico che, tuttavia, sostiene l’economia di molti villaggi. Guide e scorte armate di Ak-47 Kalashnikov sono indispensabili se si vuole ottenere il permesso di varcare il confine del loro territorio. Nel 1975 diedero vita all’”Afar Liberation Front” che aveva velleità indipendentistiche ma solo all’inizio degli anni ’90 fu raggiunto un accordo con il governo di Addis Abeba. Ancora oggi la loro principale fonte di sostentamento resta l’estrazione del sale sulle sponde del Lago Afdera o nella cava a cielo aperto della Piana del Sale dove i metodi di lavorazione sono rimasti immutati nei secoli. Un antico rituale che coinvolge gli Afar musulmani e i cammellieri cristiani ortodossi del Tigray. Ogni giorno, fra ottobre e marzo, centinaia di dromedari, muli, asini trasportano tonnellate di sale fino a Berhale e da qui a Makallè dove il prezioso carico verrà venduto. In quattro giorni di viaggio i mercanti del Tigray scendono dai 2000 metri dell’altopiano etiopico fino alla Piana del Sale dove la crosta è spessa fino a tre chilometri. Un mare fossile che permette la sopravvivenza di migliaia di famiglie ma condanna gli Afar ad una vita da forzati. Durante la notte le carovane di dromedari si fermano ad Ahmed Ela “il pozzo di Ahmed” a 4 km. dalla cava, nei pressi del letto riarso del fiume Saba.
Il villaggio è cresciuto sui ciottoli grigi, un piccolo agglomerato di capanne alzate alla meno peggio con rami sconnessi. Poco altro: una postazione militare e una baracca sgangherata in lamiera ondulata che funge da bar e fornisce birre tiepide ai cavatori e ai rari turisti. Tigrini e Afar ci vivono per sei mesi l’anno e la loro vita è scandita da una precisa organizzazione. I Tigrini cristiano ortodossi rompono la crosta salina con lunghe pertiche. Ai musulmani Afar è riservato il compito di trasformare i lastroni in mattonelle, i “ganfur” del peso variabile da 3 a 6 kg. Accucciati sotto un sole impietoso, schiene curve e occhi tumefatti, ripetono, con colpi precisi, la stessa scultura all’infinito. Si lavora dalle sei alle dieci del mattino e, se c’è la luna, anche di notte. Le mani ed i piedi, calzati in sandali cinesi di gomma ed assurdi calzini in lana, sono corrosi dal sale. I cammellieri dovranno poi sistemare i pani di sale in perfetto equilibrio sulla gobba dei dromedari che attendono pazienti: 100 kg. ciascuno. A fine giornata le carovane si avviano in fila indiana e si allontanano dondolando. Gli animali sono legati l’uno all’altro da un cordino. Tremolano all’orizzonte come un’onda leggera. C’è qualcosa di epico, di commovente in questo loro eterno andirivieni. Come in un Esodo Biblico percorrono a ritroso il canyon del fiume Saba.
In questa landa sterile, scossa da sussulti geologici e da continue rappresaglie, Cristiani e Musulmani faticano insieme nell’accecante candore di un deserto perfetto e collaborano pacificamente al successo di questa fragile economia! A poca distanza dalla cava, a un passo dal confine con l’Eritrea, si cela un’autentica meraviglia geologica. Un antico vulcano collassato emerge dalla Piana del Sale con centinaia di piccoli geyser perennemente attivi. I sali minerali, depositandosi, danno vita a un paesaggio alieno fatto di forme e colori surreali. Le sagome delle rocce sono sculture che si stagliano nitide contro il cielo violaceo. Dallol è una sorta di isola, un vulcano bizzarro e fantastico fatto di pinnacoli, geyser, acque ribollenti e pozze dalle sfumature fuori gamma. La dimora perfetta per gnomi e folletti! Smeraldo, turchese, giallo, porpora sono dovuti alle presenza di zolfo, ossido di ferro e altri minerali. Ma quest’orgia di colori maschera, in realtà, laghetti acidi e pestilenziali dove sono stati ritrovati molti cadaveri di animali. In dialetto Afar, infatti, Dallol significa “disciolto”. Il magma borbotta sotto la superficie. Geyser e fumarole liberano vapori puzzolenti che vi graffiano la gola. Non siamo all’inferno ma poco ci manca! Tutto questo ha le ore contate. Fra quanto tempo i camion prenderanno il posto dei dromedari e i Cinesi copriranno d’asfalto le vecchie piste? Le carovane stanno già scomparendo per lasciare spazio alle compagnie minerarie che hanno fiutato da tempo il business del potassio, indispensabile nell’industria dei fertilizzanti e in quella degli esplosivi. Una brutta storia di denaro e potere! Questa terra, uno degli ultimi luoghi capaci di regalarvi la sensazione di essere vecchi esploratori, va visitata al più presto, prima che le multinazionali distruggano per sempre la sua bellezza desolata.