Siamo in provincia di Oristano, a San Vero Milis, in una terra ricca di reperti prenuragici, non lontano dallo stagno di Cabras, regno dei fenicotteri rosa.
Le chiamano le suore del vino. Sono soltanto quindici e con l’aiuto di confratelli laici e di volontari coltivano un vigneto di 12 ettari producendo vini di qualità rigorosamente biologici. Un cartello giallo con la scritta “Comunità Evaristiana” ci porta al convento, nella frazione di Putzu Idu.
All’inizio la scelta delle suore di impiantare vigne fu coraggiosa, in anni in cui il vino non faceva né notizia né mercato, e figuriamoci quello sardo. Ma su quei terreni aridi e sabbiosi, ricevuti in donazione, il grano non cresceva e bisognava trovare un’alternativa per aiutare i poveri. Una decisione oggi vincente per l’ottima produzione – tre etichette di vino Dop e tre etichette Igp – ottenuta soprattutto da vitigni autoctoni come il Nasco, la Malvasia di Cagliari, il Cannonau, il Monica e il Bovale Sardo.
Il vino sardo di qualità è stata una decisione coraggiosa
A guidare le consorelle è Suor Margherita, energica ad organizzare i lavori agricoli quanto dolce a coccolare i suoi figli. Sì, perché la Comunità Evaristiana ospita bimbi e ragazzi diversamente abili o disadattati, con alle spalle storie di abusi e di abbandoni. Qui ritrovano tante mamme e l’affetto dei confratelli e dei volontari che danno una mano quando serve. Sono una ventina i ragazzi ospitati, ascoltati e aiutati da insegnanti di sostegno e recuperati alla vita, ma altri ne arrivano e restano pochi giorni, tra un affidamento e l’altro. “Non si sa mai quanti saremo a tavola” – dice suor Margherita – le forze dell’ordine ce li portano a tutte le ore, frastornati e impauriti, spesso sudici come Dio è grande“.
C’è Antonio che aveva paura di diventare grande, Rosaria discriminata perché ritenuta illegittima, Andrea troppo malato per essere assistito in famiglia.
Tutti portano avanti il messaggio del fondatore dell’ordine, padre Evaristo Madeddu, che nella Sardegna latifondista degli anni Venti ispirandosi a San Francesco si dedicò ai poveri con iniziative forti che fecero irrigidire le autorità ecclesiastiche, un po’ come avvenne per Padre Pio. Si dovette attendere gli anni Sessanta perché la Chiesa ufficiale riconoscesse pienamente la sua opera, tanto contestata e contrastata.
Il Vino di qualità ma non solo, anche l’opera cristiana è grande nel Convento del vino
Ma la solidarietà parte e arriva a Putzu Idu: un produttore di pasta non fa mai mancare il primo piatto e l’orto e il pollaio danno anche più di quel che serve a Suor Remedia, che traffica in cucina con i pentoloni. La Provvidenza – dicono – arriva sempre al momento giusto, e poi a mandare avanti il convento c’è il vino, apprezzato e ora scoperto anche dalle più nobili guide, di cui insieme alle suore si occupa un nipote studente laureando in enologia. Inutile però cercare le religiose al Vinitaly o agli altri eventi a tema. Delegano infatti i confratelli più assidui, Marco, Salvatore e Roy perché, pur nella consapevolezza dell’impatto mediatico di una loro presenza, non vogliono lasciare soli i ragazzi e poi c’è sempre troppo da fare in campagna.
un vino fuori dal circuito mainstream del vinitaly ma pur sempre un vino di qualità inserito nelle guide gourmet
Una storia minore di ordinaria accoglienza, questa delle Suore Evaristiane? No, perché un giorno si è inserita una storia nella storia che sembra uscita dalle pagine di Salvator Gotta o di Edmondo De Amicis e che merita di essere raccontata. Anni fa un gruppo di alpini in trasferta capitò per caso per acquistare vino e, colpito dallo stato della struttura, quasi cadente, decise di aiutare le suore senza troppe parole, alla montanara. Le penne nere guardarono, misurarono, chiesero planimetrie e mappe catastali e ripartirono. Mesi dopo, all’improvviso, una telefonata: “Arriviamo giovedì”.
Una colonna di camion targati Trento, carichi di mattoni e cemento si profilò all’orizzonte e una squadra di 35 penne nere, insieme a geometri ed elettricisti, si rimboccò le maniche, ricevendo il cambio ogni settimana per quattro mesi e coinvolgendo i commilitoni sardi che risposero subito all’appello. Alle incredule suore non restò che trafficare ai fornelli con i robusti sapori sardi, per non far sentire agli alpini la nostalgia della polenta. Una targa, “Via degli Alpini” è stata posta sul lungomare per ricordare la vicenda. Le penne nere tornano da allora ogni anno, con i figli e i nipoti, e non si tirano indietro se c’è qualche lavoro particolarmente pesante da fare. Ora la cantina è a posto, con tutte le attrezzature fiammanti, e in caso di necessità chissà che gli alpini non si inventino un’altra spedizione.
Una storia a lieto fine, questa, ma quali sono i momenti più belli? “Quando i nostri ragazzi escono da qui e si inseriscono nella società“, dice Suor Margherita, anche se sa bene che non sempre è così. E’ solo di sera, quando tutti sono a letto, che le religiose ne parlano e fanno progetti, davanti a una tv accesa che nessuna guarda, mentre Suor Teresa, 101 anni, rammenda senza occhiali e suor Emanuela riferisce sui lavori in vigna e in cantina. Domani è un altro giorno, è il caso di dire.
Testo di Mariella Morosi Foto di Davide Erdas
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